Conclusa la traversata infernale, Dante, lieto alla vista della volta terrestre, chiude la prima cantica recitando le celebri parole: «e quindi uscimmo a riveder le stelle» (If XXXIV, v. 139). Ma quali erano le stelle del poeta? A quale segno zodiacale apparteneva e come egli viveva, da uomo del Medioevo, questo suo rapporto con la realtà celeste? E l'origine del suo nome, semplice attribuzione paterna o profetico auspicio delle virtù future?
Si è sempre parlato tanto della figura letteraria italiana più nota al mondo ma quasi sempre in relazione al suo massimo capolavoro della Divina Commedia, finendo per assottigliare man mano il profilo della 'persona' a favore di quello del 'poeta'. Nella consapevolezza che la biografia di un autore costituisce sempre la base fondamentale per una sua attenta lettura, l'invito rivolto qui - come nelle prossime occasioni intese a celebrare i settecento anni dalla morte di Dante che ricorrono quest'anno - è quello di guardare «sotto 'l velame» e conoscere alcuni aspetti poco divulgati del Sommo Poeta.
💡 Lo sapevi? L'espressione «sotto 'l velame» è citazione tratta da Inferno IX, v. 63, e fa riferimento al 'mistero' sotto il quale si nasconde «la dottrina», la verità che Dante si appresta a rivelare.
Da grande osservatore e cantore del cielo, Dante ha sempre amato - e
lo testimoniano le sue parole - contemplare la volta celeste,
riservando però particolare dedizione ad una costellazione che ebbe
molto cara per tutta la vita: quella dei Gemelli. Nel suo segno
era nato, in quella seconda metà di maggio del 1265, e da ogni luogo
della sua vita - dalla Firenze natia alla Ravenna dell'esilio e della
morte - godeva nell'ammirarla brillare da ovest, specialmente nel suo
trionfo di luce invernale quando appare più visibile.
Di essa e
delle sue stelle Dante si dirà eternamente debitore, nella
coscienza antica per cui «Lo cielo i vostri movimenti inizia» (Pg XVI,
73). E, non a caso, a loro si rivolgerà
invocandone il soccorso quando - entrato nel Cielo delle Stelle
Fisse (Pd XXII, 112-114) - chiede per la propria anima di «acquistar
virtute» affinché essa sia capace di affrontare il «passo forte che a
sé la tira», ovvero la parte più difficile dell'intero tragitto che
dovrà descrivere (la rosa dei beati, le gerarchie angeliche, Dio):
O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
[…].
In che cosa consiste il dono virtuoso dei Gemelli?Lo delinea molto bene l'anonimo autore trecentesco dell'Ottimo commento alla Divina Commedia:
Gemini è casa di Mercurio, che si è significatore, secondo gli astrolaghi, di scrittura e di scienza e di conoscibilitade, e così dispone quelli che nascono sotto esso ascendente, e maggiormente quando il Sole vi si truova.
💡 Lo sapevi? L'Ottimo commento alla Divina Commedia, giuntoci in varie edizioni tutte ascrivibili agli anni 1330-1340 ca., è il primo commentario in fiorentino all'intera Commedia. L'autore, anonimo, aveva conosciuto Dante e aveva discusso con lui del poema.
Ingegno e talento spettano dunque ai nascituri di queste
fortunate stelle. E tanto più Dante eccelle nello studium e
nelle litterae, tanto più attribuisce importanza all'eredità
astrale di cui è stato omaggiato, soprattutto se dietro il suo
influsso si cela la bontà di Dio che a quelle stesse stelle conferisce
il moto.
Ma con la presenza di Dio si acuisce il senso del
peccare, ancor di più se l'epoca è quella medievale. Sicché il poeta,
temendo di errare lasciando correre il proprio intelletto senza la
guida sicura garantita dalla virtù - se è vero che ogni grande dono
reca con sé significativi doveri, si pone un freno
assicurandosi sempre un uso del 'dono' svolto con proprietà e sotto
autorevoli favori.
Gustave Doré, La Divina Commedia di Dante Alighieri, Paradiso XXVI.
Un caso esemplare lo si ritrova nella Commedia, quando è San Pietro, dopo l'accesa denuncia riservata alla corruzione dei pontefici suoi successori, ad affidare - con sua implicita benedizione - a Dante il compito di aprire «la bocca, / e non asconder quel ch'io non ascondo» (Pd XXVII, 65-66), e proprio nella luce della costellazione cui si era appellato appena qualche canto prima.
💡 Lo sapevi? San Pietro è uno dei tre santi apostoli che sottopone Dante - una volta giunto nell'ottavo cielo - ad un esame teologico, interrogandolo sulla fede; gli altri due sono Giacomo e Giovanni e da loro verrà esaminato sulla speranza e sulla carità (Pd, XXIV-XXVI).
Ciò è quello che poi farà il poeta una volta 'ritornato' sulla terra. E chissà se con quell'«uscimmo a riveder le stelle» egli non intendesse proprio la costellazione dei Gemelli: allora la sua luce avrebbe anche accompagnato il pellegrino dalla bocca della natural burella alla scalata del monte Purgatorio, consacrando così ogni passo del suo intero viaggio.
Secondo l'uso antico di 'contrassegnare' i figli col nome dei padri, e
con quello dei padri di quelli, il nome intero di Dante sarebbe quello
di
Durante di Alighiero di Bellincione di Alighiero di Cacciaguida. Almeno fino a quando, come stava
già avvenendo all'epoca del poeta,
non si andarono fissando i nomi delle casate ad indicare i vari membri
di un gruppo familiare.
È ciò che accadde con quello che poi
divenne il 'cognome' di Dante, Alighiero (dalla forma arcaica
di Alagherio, ma Boccaccio parla di una corruzione
dall'originario Aldighieri), introdotto dalla donna presa in
moglie dall'antenato Cacciaguida alla quale «in uno [figlio], sì come
le donne sogliono essere vaghe di fare, le piacque rinovare il nome
de' suoi passati» (Boccaccio, Trattatello in laude di Dante ,
II, 15), integrandolo in tal modo negli usi nominali della famiglia.
Analogo discorso vale per il nome proprio del poeta attribuitogli
dalla madre Bella, appartenente al casato degli Abati in
cui esso (nella doppia forma di Dante e Durante) era assai comune.
Dante e Durante: l'uno il diminutivo dell'altro ed entrambi
diffusissimi a Firenze, anche se a prevalere in città fosse la
versione ridotta (lo conferma il cronista quattrocentesco
Filippo Villani) la quale spesso finiva per acquisire valore di nome
effettivo.
Così accadde per il Nostro: battezzato, come tutti i
fiorentini, nel tempietto di San Giovanni come Durante, è stato
poi - ed è tutt'oggi - chiamato Dante. Ed egli stesso non mancò mai di
contribuire a tale uso, firmandosi sempre tale nella sua
corrispondenza poetica (come in un suo sonetto di risposta il cui
primo verso recita: «Io Dante a te, che m'hai così chiamato»), nelle
sue opere (nel canto XXX del Purgatorio Beatrice, nell'ammonirlo, lo
appella come 'Dante') e in altre occasioni (gli atti notarili stilati
durante la sua vita).
Battistero di San Giovanni (XI-XII sec.), piazza del Duomo ovest, Firenze.
💡 Lo sapevi? La porta est del Battistero è la celebre Porta del Paradiso realizzata da Lorenzo Ghiberti fra il 1425 e il 1452. L'originale, però, è stato trasferito all'interno del Museo dell'Opera del Duomo dopo essere stato restaturato in seguito ai danni arrecati dall'alluvione del 1966.
Crescendo la fama e il riconoscimento del suo genio, alla costanza
nell'uso che Dante fa del proprio diminutivo si volle dare un
significato, imitando l'interesse coltivato dallo stesso autore
per quella consequenzialità fra i nomi e le cose da lui
ricordata nella Vita Nuova (XIII, 4) e ripresa dalle
Istitutiones
dell'imperatore Giustiano («Nomina sunt consequentia rerum»).
Fra le più condivise vi è quella incentrata sulla lettura del
nome Dante in quanto participio presente del verbo 'dare', per
cui Dante sarebbe letteralmente 'colui che dà'. E sulle sue
qualità di 'donatore' si espressero molti fra i suoi ammiratori
contemporanei e successivi, come il diplomatico napoletano
Guglielmo Maramauro, il quale in merito compose un sonetto che
apre così:
O spirito gentile, o vero dante
a noi mortali il frutto della vita,
dandolo a te l'alta bontà infinita,
come congruo e degno mediante [...].
💡 Lo sapevi? Guglielmo Maramauro (o Maramaldo, 1317-?) fu membro dell'ordine cavalleresco degli ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, servì come diplomatico presso la corte angioina di Giovanna I di Napoli e fu nominato Senatore di Roma da Papa Urbano VI.
Non da meno fu il Boccaccio. Nel sopracitato Trattatello, a chiusura del Capitolo II, introduce la figura del poeta e lo presenta al lettore come colui «che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio» di cui fa prontamente dono a sua volta, rendendosi artefice di molte nobili imprese che non potevano essere realizzate da altri se non da un uomo, da un genio, portatore di un nome così eloquente:
[…]; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d’Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.