Indice · La divisione in sillabe · La sillaba e il sillabismo italiano · Il computo metrico e le sue problematiche · Dittongo, trittongo e iato dentro le parole: esempi di dieresi e sineresi · Dittongo, trittongo e iato tra le parole: esempi di dialefe e sinalefe · La cesura · Isosillabismo e anisosillabismo Articoli
Letteratura
La metrica della poesia

La divisione in sillabe

Come suddividere in sillabe un verso

Cupidi (Allegoria della Poesia), François Boucher, 1760

Il principio fondamentale, in tutta la versificazione regolare italiana, cui si guarda in relazione alla definizione della misura di un verso, si basa sulla sillaba, o meglio, sul numero delle sillabe. Ma che cos'è una sillaba, come si definisce? E come la si identifica? Ma soprattutto, come si svolge il computo metrico?

Louis-Jean-François Lagrenée, Poesia

La sillaba e il sillabismo italiano

Si definisce sillaba l'unità ritmica della catena parlata, e precisamente l'elemento minimo, di suono e di significato, che in condizioni normali (quando cioè costituito da almeno una vocale, accompagnata da una consonante o da una semiconsonante) può essere pronunciato da solo.

💡 Lo sapevi? Con semiconsonante si fa riferimento a quella /i/ o a quella /u/ che non hanno valore sillabico ma presentano un'articolazione consonantica evidente (una maggiore ostruzione nella pronuncia) che le obbliga ad unirsi alla vocale tonica che precedono per formare una sillaba; analoga definizione, ma tenendo presente una minore articolazione consonantica (e dunque una minore ostruzione), si dà di una semivocale, quella /i/ o quella /u/ le quali si uniscono invece alla vocale tonica che seguono.

Ovviamente questa realtà non è un fatto originario, ma piuttosto una conseguenza del passaggio dal latino all'italiano e dunque da un sistema vocalico quantitativo a uno invece qualitativo (non più legato alla durata ma al grado di apertura dei suoni). Dunque, il discrimine fra due serie di sillabe, essendo tutte uguali nel loro svolgimento ritmico-temporale, risiede proprio nel loro numero. Si parla, in tal caso, di isocronismo sillabico: due parole saranno percepite come dotate della stessa lunghezza quando avranno la stessa quantità di sillabe (e non di fonemi, di singole lettere).

Esempio
cosa, costo, strambo sono sillabicamente uguali perché tutti bisillabi, pur avendo rispettivamente quattro, cinque e sette suoni
ma
costo e anima, benché di cinque suoni ciascuno, non presentano la stessa lunghezza (il primo è un bisillabo, il secondo un trisillabo).

Ma questa forma di sillabismo, ovvero di misurazione data dal numero sillabico, se risulta valida per le singole parole, non lo è altrettanto per i versi. In ambito metrico, infatti, due versi si diranno 'lunghi uguali' quando, all'interno della loro serie sillabica, l'ultima sillaba tonica si trova nella stessa posizione, ciò indipendentemente dal fatto che essa sia quella finale in senso assoluto o sia seguita da una o più sillabe atone.

Sulla base di tale specifica, si distinguono tre diverse tipologie di 'uscita' e quindi di verso: se l'ultima tonica è seguita da una sola sillaba atona, allora si avrà un'uscita piana e il verso sarà detto piano (o parossitono); se l'ultima tonica non è seguita da alcuna sillaba atona, l'uscita è tronca e il verso sarà detto tronco (o ossitono); infine, se l'ultima tonica è seguita da due sillabe atone, l'uscita si dirà sdrucciola e il verso sdrucciolo (o proparossitono). Rarissime le occasioni in cui le sillabe atone post-toniche sono più di due: si tratta tutt'al più di casi riconducibili a esercizi metrici volutamente bizzarri.

La maggiore frequenza di uscite piane nei testi della produzione poetica nostrana ha fatto sì che il sillabismo italiano le adottasse come parametro basilare per la categorizzazione delle misure versali. Per cui, all'ultima sillaba tonica si aggiunge sempre e solo una sillaba atona onde ottenere il numero complessivo delle sillabe nel verso e definirne così la lunghezza, a prescindere da quante effettivamente ne seguano.

Esempio:
Se l'ultima sillaba tonica di un verso è la decima, e contando dunque una sola sillaba ulteriore dopo di essa, si avrà allora un endecasillabo (a prescindere se la tonica in questione sia l'ultima o sia seguita da una o più sillabe atone).

💡 Lo sapevi? Tale metodo di computo sillabico deriva dalla metrica di tradizione franco-provenzale, dalla quale quella italiana si distungue tuttavia per un fattore strettamente terminologico, relativo alla nomenclatura delle tipologie di misura versale (l'importanza data alla sola ultima sillaba tonica fa sì che ciò che in un testo poetico italiano è considerato come endecasillabo, in un analogo francese figura invece come decasillabo) e a quella delle 'uscite' (tronca e piana - la sdrucciola non esiste, data l'assenza di parole sdrucciole in francese - sono rispettivamente indicate come maschile e femminile).

Già Dante, nel suo De Vulgari Eloquentia (libro II), aveva impiegato il principio sopra descritto per classificare le singole lunghezze metriche, compiendo un passo ulteriore con la proposizione, sulla base di tale categorizzazione, di una macrosuddivisione in versi parisillabi e imparisillabi, senza esimersi dall'esprimere in merito un giudizio di valore e affermando che più propriamente adatti allo stile 'alto' sono gli imparisillabi (specie l'endecasillabo e il settenario, talvolta in combinazione con il quinario, in perfetta coerenza con quanto accadeva nella produzione poetica coeva, ma escludendo da questa elezione il novenario), di contro ai parisillabi scartati per la loro 'rozzezza' ritmica (poi ripristinati, e intercalati agli imparisillabi, nei generi metrici propri della poesia per musica - come l'ode-canzonetta - e nelle imitazioni dei metri classici).

Il computo metrico e le sue problematiche

Se la suddivisione in sillabe non presenta problemi nel momento in cui ogni vocale è divisa da almeno una consonante, per cui ad ognuna di essa corrisponderà una sillaba, l'operazione diventa più complessa laddove si incontrano due o più vocali, sia che ciò si verifichi nella lingua parlata o nella scrittura in prosa, sia in quella poetica. Anzi, soprattutto in quest'ultimo contesto, e per due ragioni di fondo: prima di tutto, il computo metrico non si pone come una possibilità da realizzare o meno ma come un intervento necessario allo studio di un testo in versi; in secondo luogo, nello spazio testuale prettamente poetico agiscono spesso dei fenomeni sillabici perlopiù estranei alla pratica scrittoria tradizionale: il riferimento va alle figure della dieresi e della sineresi, della dialefe e della sinalefe.

Si parla di dieresi quando un nesso vocalico risulta divisibile in due sillabe distinte e separate. La sineresi indica il caso esattamente opposto: un nesso vocalico nornalmente bisillabico viene ridotto a una sola sillaba.

Con sinalefe si intende la fusione interverbale fra la vocale finale di una parola che precede e quella iniziale della parola che segue. Al contrario, la dialefe si ha quando, in mancanza di questa contrazione, le due vocali prossime costituiscono sillabe autonome.

Allegoria della Natura come Madre dell'Arte, Jan Sanders van Hemessen

Dittongo, trittongo e iato dentro le parole: esempi di dieresi e sineresi

Prendendo le mosse dai nessi di vocali collocati all'interno delle parole, la coppia di vocale tonica e vocale atona è solitamente considerata bisillabica quando collocata alla fine del verso, monosillabica quando invece si trova dentro il verso stesso. Ciò vale tanto nell'eventualità in cui il nesso in questione è finale di parola, quanto in quella in cui a tale nesso fanno seguito una consonante o un'intera sillaba.

Esempio:
primavera per me pur non è ma | i [2] (Canzoniere IX, 14) - in finale di verso
ma dentro dove già mai [1] non s'aggiorna (Canzoniere IX, 7) - dentro il verso
E fuggiano, e pareano [3] un corteo nero (Carducci, Davanti a San Guido) - dentro parola interna al verso (ma posta alla fine sarebbe stata parola sdrucciola di quattro sillabe)

Volendo riformulare in altri termini quanto appena dichiarato, si può affermare che si ha dieresi quando la coppia vocalica di tonica e atona ricorre in uscita del verso, mentre si ha sineresi quando tale occorrenza cade internamente al verso.

In generale, la divisione o meno dei nessi vocalici, e dunque il verificarsi o meno di dieresi o sineresi, è dato da un fattore propriamente etimologico, per il quale si tende a separare in due sillabe quella coppia di vocali che, diventata monosillabica in italiano, era invece bisillabica in latino.

Esempio:
latinismi come savio o filio, spesso ricorrenti nel lessico lirico, risultano formati da due sillabe in italiano (-io è, infatti, un dittongo); tuttavia, quella /i/ consonantica costituiva, in latino, una vocale vera e propria che può essere ripristinata; per cui si avranno, talvolta, sa | vï | o e fi | lï | o; se ciò è norma alla fine del verso, come già detto, la regola etimologica autorizza tuttavia all'applicazione della dieresi anche lungo il verso stesso: in questo caso si parla di dieresi d'eccezione (indicata, solo per questa eventualità, con il segno diacratico dei due punti posti sopra la vocale interessata).

Viceversa, si vanno a concepire come unitari quegli insiemi vocalici derivanti da dittonghi latini o dai nessi sillabici formati da consonante + L + vocale che sviluppano una /i/ semiconsonante (nota anche come iod).

Esempi:
1) i nessi (dalla È aperta latina, a sua volta contriazione del dittongo latino AE) e (dalla Ò aperta latina) sono sempre monosillabici: pie | de (da PÈDEM), buo | no (da BÒNUM);

2) il dittongo latino AU rimane indivisibile anche in italiano (in parole come laude, lauro, causa, pausa, aura);

3) le coppie di iod + vocale tonica derivanti da costrutti sillabici di consonante + L + vocale (come in chia | ve (da CLAVEM) o in tem | pio (da TEMPLUM)) e laddove la /i/ semiconsonante contribuisce a esprimere il suono palatale di c, g, l (in parole come faccia, saggio, figlio) sono casi da considerarsi come di una sola sillaba;

I nessi di vocale atona (a, e, o) e vocale tonica (ad esempio in paese, leone, soavi) o le coppie vocaliche divise da una /i/ semiconsonante (gioia, noia) sono sempre bisillabiche (ma per quest'ultimo caso, soprattutto nei testi poetici del Due-Trecento, si verifica spesso una riduzione del nesso a monosillabo, su imitazione del provenzale nel quale i corrispettivi joi ed enoi costituiscono una sola sillaba).

Infine, i nessi di sole vocali atone prevedono due esiti: se la prima atona è una vocale diversa da /i/ e da /u/, allora la coppia è bisillabica (come in Be | a | tri | ce); al contrario, essa risulta inscindibile (nelle stesse gioia e noia, per cui si avrà gio | ia e no | ia; o ancora, lin | gua, per | pe | tua - ma lo stesso discorso vale anche quando la /u/ semiconsonante è in coppia con una vocale tonica, come per esempio in guer | ra).

Sarà comunque utile ricordare che, per tutti i casi elencati, sono previste eccezioni (il ricorso alla dieresi in luogo delle sineresi e viceversa).

Dittongo, trittongo e iato tra le parole: esempi di dialefe e sinalefe

Guardando adesso al piano delle relazioni interverbali, l'uso propriamente preponderante nella scrittura poetica è quello della sinalefe. Bisogna però sottolineare che la contrazione vocalica fra parole è un aspetto che pertiene esclusivamente all'ambito ritmico-metrico, dunque alla costruzione e alla misurazione del verso composto, e non incide in alcun modo sulle vocali interessate (le quali rimangono, piuttosto, ben presenti nella lettura). In ciò la sinalefe si distingue dalle figure dell'elisione (caduta della vocale finale), dell'aferesi (caduta della vocale iniziale) e della crasi (fusione di due vocali identiche in una).

Per un confronto...
Ahi quanto ^a dir qual era ^è cosa dura (Inf I, 4) - sinalefe
levan di terra al ciel nostr'intelletto (Canzoniere X, 9) - elisione
d'amorosi penseri il cor ne 'ngombra (Canzoniere X, 12) - aferesi
v'aggio proferto il cor; [ma a] voi non piace (Canzoniere XXI, 3) - crasi

Non propriamente italiana ma presente in alcuni esempi illustri (a partire da Pascoli) è la sinalefe tra versi, meglio nota come anasinalefe o episinalefe. Essa si rifà alla sinafia latina, con la quale si usava, nella poesia classica, legare fra loro versi o parti di verso normalmente separate fra loro.

Assai più rara è la dialefe, nei confronti della quale la poesia italiana si muove nel senso opposto, limitandone l'applicazione e rendendola persino inattuabile in alcune condizioni ben precise: dopo vocale tonica o dopo nesso di tonica e atona, dopo alcuni monosillabi come che, ma, se, o, tra vocale atona e tonica, tra due atone, dopo parola sdrucciola.

In generale, la tradizione poetica di Petrarca e dei petrarchisti ricorre in modo oculatissimo alla dialefe, e così fino al Cinquecento e nei secoli successivi, Ottocento compreso. Più comune era, invece, nella precedente poesia del Duecento e in Dante. Tuttavia, una relativa probabilità di trovare dialefe si ha o dopo monosillabi come da, chi, né, dopo e coordinativa e o avversativa e vocativa: in questi ultimi due contesti la ragione è di natura etimologica, poiché il poeta ha la possibilità di recuperare, graficamente (ed, od) o soltanto virtualmente (senza riportare il segno grafico e dunque senza imporlo nella pronuncia), la consonante originaria -t (ET, AUT).

Poesia e poeti, Francisco de Goya

La cesura

La struttura interna di un verso poetico non è soltanto suddivisibile e descrivibile in termini di sillabe, ma un altro elemento concorre alla definizione della sua organizzazione intrinseca: la cesura.

Si tratta di una 'pausa' la quale, a seconda della funzione che svolge rispetto alla fisionomia versale, può essere metrica, se interviene a mettere in luce gli emistichi, ossia le 'parti'. che compongono il verso nella sua intera lunghezza (lo si può notare soprattutto nei cosiddetti 'versi doppi', cioè formati da due emistichi della stessa misura distinti, appunto, dalla cesura); o ritmico-sintattica quando, cadendo intorno alla metà della serie sillabica, contribuisce a indicare la cadenza e l'intonazione del verso (un esempio può essere l'endecasillabo il quale, a seconda che abbia la quarta o la sesta sillaba toniche, assumerà un andamento ascendente o discendente).

Differentemente da quella metrica, quest'ultima cesura non corrisponde a una divisione del modello del verso, non è obbligatoria, può esprimere un diverso grado di intensità (se forte o debole, a seconda della sua coincidenza o meno con i vari segni di interpunzione) e può persino mancare del tutto (è il caso dell'endecasillabo con quarta e sesta toniche, nel quale lo svolgimento ritmico appare più continuo e unitario, rendendo impossibile l'individuazione di un limite preciso).

Esempi:
Rosa fresca aulentisima | ch'apari inver' la state (Cielo d'Alcamo, Contrasto, 1) - c. metrica
Nel messo del cammin | di nostra vita (Dante, Commedia, If I, 1) - c. ritmico-sintattica
ché la diritta via era smarrita (Dante, Commedia, If I, 3)

Assumendo come criterio la posizione della sillaba in prossimità della quale si colloca la cesura e prendendo a modello l'endecasillabo, si individuano tre diversi tipi di cesure: la maschile, la lirica, l'italiana.

La cesura maschile, più comune, si ha quando la pausa cade dopo la quarta sillaba tonica, solitamente finale di una parola tronca; la cesura lirica, invece, segna il confine del primo emistichio chiuso da una parola piana che ha la tonica in terza posizione e l'atona sulla quarta; infine la cesura italiana, detta così perché particolarmente frequente nella poesia nostrana, figura dopo parola piana con la tonica in quarta posizione e l'atona sulla quinta.

Esempi:
che nel pensier (4) | rinova la paura (Dante, Commedia, If I, 6) - c. maschile
per lo furto (3/4) | che frodolente fece (Dante, Commedia, If XXV, 29) - c. lirica
fu stabili | ta (4/5) per lo loco santo (Dante, Commedia, If II, 23) - c. italiana

Isosillabismo e anisosillabismo

La percezione delle misure versali fin qui descritta non è sempre stata, nel tempo, univoca. Buona parte della tradizione poetica italiana fino ad oggi (avendo comunque considerazione delle anomalie proprie della versificazione libera novecentesca) si sviluppa nel segno dell'isosillabismo, ossia di una visione costruita sulla base della stretta corrispondenza fra tipo e numero di sillabe nella quale, dunque, ogni eccesso (ipermetria) e ogni difetto (ipometria) sono da ritenersi deviazioni rispetto alla norma.

Tuttavia, nella poesia italiana antica (e, in generale, in quella medievale di area romanza) il carattere fondamentale della composizione coincideva con la costruzione e la riproduzione di un solido schema rimico, realizzato il quale le misure versali - dato un tipo di verso base - potevano liberamente oscillare da una quantità di sillabe all'altra senza che ne venisse percepita la differenza, tanto in termini di variazione quanto di irregolarità. Tale è il principio dell'anisosillabismo: la primarietà data, nella gerarchia degli elementi metrici, alla rima sull'esattezza del numero sillabico.

💡 Lo sapevi? Malgrado l'anisosillabismo fosse una tendenza diffusa nelle composizioni delle origini, essa tuttavia risulta perlopiù impiegata nella versificazione cosiddetta 'giullaresca', sviluppatasi ai margini della lirica maestra di stile elevato, o in quella popolare dei cantari tre-quattrocenteschi. Non mancano, però, esempi illustri, quali la poesia didascalica dell'Italia settentrionale con Giacomino da Verona, e Guittone d'Arezzo nella canzone Gente noiosa e villana.

Scritto da Vincenzo Canto
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